Costruire fiducia nelle operazioni M&A: strumenti per allineare venditore e acquirente

by | May 28, 2025 | News, Uncategorized | 0 comments

Negoziare un’operazione M&A tra PMI significa spesso confrontarsi con obiettivi e visioni differenti. Tuttavia esistono strumenti contrattuali e incentivanti che giocano un ruolo chiave per creare continuità e allineare gli stakeholder nel lungo periodo.

Le operazioni di M&A nelle PMI raramente nascono da una perfetta sintonia tra le parti. Più spesso sono il risultato di trattative complesse, in cui il venditore punta a ottenere il massimo valore in tempi rapidi, mentre l’acquirente cerca garanzie e preferisce legare parte del prezzo ai risultati futuri.

Gestire interessi divergenti è una delle sfide chiave in queste operazioni. Da questa tensione emerge un tema centrale per chi opera come advisor o “facilitatore” dell’operazione: come costruire un perimetro negoziale sostenibile per entrambe le parti?

La risposta passa attraverso una serie di strumenti finanziari, contrattuali e incentivanti, pensati proprio per allineare aspettative diverse e generare collaborazione là dove potrebbe nascere conflitto.

Earn-out: il prezzo che si guadagna sul campo

Quando acquirente e venditore faticano a mettersi d’accordo sul valore dell’azienda, spesso l’escamotage è l’earn-out. Di cosa si tratta? In parole semplici, di un accordo che rimanda parte del pagamento a un momento successivo, subordinandolo al raggiungimento di certi risultati. Se l’azienda performa bene, secondo metriche prestabilite come EBITDA, fatturato o altri KPI, il venditore incassa il resto.

È una soluzione pratica, soprattutto in contesti in cui le aspettative sul futuro sono alte, ma incerte. Questo meccanismo può aiutare a colmare l’asimmetria informativa tipica delle trattative M&A: il venditore conosce l’azienda meglio di chi la compra, e l’earn-out consente di “testare” quelle promesse sul campo, prima di pagarle.

C’è però un rovescio della medaglia: l’earn-out può diventare fonte di tensioni nel post-deal se gli obiettivi non sono stati ben definiti o se il mercato cambia strada facendo. Per questo, funziona meglio quando chi vende resta attivamente coinvolto nella gestione anche dopo l’operazione. In quel caso, ha un ruolo diretto nel determinare i risultati che daranno diritto al pagamento futuro. Non è più solo una questione di soldi differiti, ma un vero patto di fiducia: se le cose vanno bene, vinciamo entrambi.

Performance-Based Pricing: il prezzo come funzione dei risultati

Immaginiamo due persone che vogliono chiudere un accordo, ma non riescono a mettersi d’accordo sul prezzo. Una pensa che l’azienda valga molto perché è in forte crescita. L’altra teme che queste previsioni siano troppo ottimistiche. Come si risolve? Spesso, si finisce per legare il prezzo effettivo dell’operazione ai risultati concreti che l’azienda raggiungerà nei mesi o anni successivi.

È qui che entra in gioco il Performance-Based Pricing, un meccanismo in cui il prezzo finale non è fisso fin da subito, ma dipende da indicatori oggettivi e misurabili: margini, fatturato, acquisizione di nuovi clienti, ecc. Non è un “earn-out” in senso stretto, perché non si tratta solo di un bonus futuro, ma piuttosto di una vera e propria formula che ricalcola il valore dell’azienda sulla base di numeri reali, una volta che questi si sono manifestati.

Il vantaggio principale è che ci si ancora a criteri verificabili, riducendo al minimo la componente emotiva o speculativa della valutazione. Ovviamente, tutto questo funziona solo se i dati su cui si basa il calcolo sono condivisi in modo trasparente, e se le metriche sono state definite in modo chiaro fin dall’inizio. Altrimenti si rischia che il meccanismo generi nuovi attriti post-deal.

Nella pratica, il performance-based pricing viene utilizzato soprattutto quando ci sono molte incertezze sul futuro del business: aziende tech, start-up in fase di scale-up, imprese familiari che stanno attraversando una trasformazione importante. L’obiettivo non è solo “dilazionare” il pagamento, ma costruire un accordo che sia percepito come equo da entrambe le parti.

Rollover Equity: restare a bordo, per creare valore insieme

Non sempre, quando si vende un’azienda, si chiude davvero la porta alle spalle. In molti casi, anzi, chi vende resta a bordo, anche solo parzialmente, per accompagnare la fase successiva di crescita. È qui che entra in gioco il rollover equity: una parte del prezzo pattuito non viene incassata subito, ma reinvestita dal venditore nella nuova società che nasce dopo l’operazione.

Perché funziona? Perché crea continuità. L’acquirente condivide il rischio con qualcuno che conosce bene clienti, fornitori e mercato. Come rilevato in più occasioni dall’AIFI, questo strumento è particolarmente utile nei passaggi generazionali: chi lascia l’azienda lo fa gradualmente, con la possibilità di trasmettere know-how e legittimare la nuova guida. Ma è anche un segnale forte durante la trattativa: se il venditore reinveste, vuol dire che crede davvero nel futuro dell’impresa. Il rollover è, di fatto, una forma concreta di “skin in the game”: non si scommette solo con le parole, ma anche con il capitale, e nei deal complessi, può fare la differenza.

Long Term Incentives: le persone chiave restano il vero asset

Quando si compra un’azienda, non si compra solo un bilancio, si acquistano persone, relazioni e conoscenza tacita, insomma, quel valore “intangibile” che spesso fa la vera differenza tra un affare riuscito e un flop.

Per questo, sempre più spesso nei deal di M&A si inseriscono sistemi di incentivazione a lungo termine (LTI). Stock option, bonus legati a obiettivi futuri, piani di retention, sono strumenti pensati per trattenere e motivare le figure chiave dell’organizzazione. Non solo il CEO, ma anche i middle manager, i responsabili di funzione, i commerciali senior.

Il Rapporto AIFI 2024 sul private equity rileva che oltre il 60% delle operazioni analizzate prevede qualche forma di LTI con un orizzonte di 3-5 anni. L’obiettivo è quello di assicurare continuità e incentivare il raggiungimento dei target industriali o finanziari concordati. In altre parole, premiare chi contribuisce davvero alla creazione di valore, anche dopo che il deal è stato firmato.

La regia dell’operazione: quando il valore non è nei numeri

Strumenti come earn-out, rollover o piani incentivanti non sono semplici clausole da infilare in fondo a un contratto. Sono leve per costruire fiducia, e funzionano solo se chi li propone sa leggere bene il contesto e le persone coinvolte.

Il vero lavoro comincia prima della firma: nella preparazione del deal, nel modo in cui si racconta il progetto e si gestiscono le asimmetrie tra venditore e acquirente. Ed è in questa fase che il ruolo degli advisor diventa cruciale. Non solo avvocati o banker, ma professionisti in grado di unire visione strategica, sensibilità relazionale e competenze tecniche.

In mercati come quello italiano, dove molte PMI affrontano il primo passaggio di quote con interlocutori esterni, questa regia è spesso decisiva. Non serve solo a “chiudere l’operazione”, ma a renderla sostenibile nel tempo, traducendo esigenze diverse in un progetto condiviso.